Alberto Todros
Alberto Todros nasce il 21 luglio 1920 a Pantelleria
dove
suo padre Orazio, di famiglia
ebraica piemontese,
e sua madre Nicolina, di famiglia
cattolica siciliana, si conoscono e si sposano.
Alberto portava il segno di ambedue le religioni e a domanda,
quando i tempi diventarono bui, avrebbe risposto con forza: cattolica.
Nel 1923 nascerà Carlo. Vivono a Torino (che è la loro città) dove resteranno
orfani di padre prestissimo. L’infanzia, la fanciullezza e la gioventù – quasi tutta trascorsa in Liguria – non saranno facili.
I Todros, titolari di una importante ditta di forniture all’ingrosso, sono più che benestanti ma
la ragazza di Pantelleria «non è mai stata accolta né considerata parte della famiglia».
Il 1938 e le leggi razziali – dirà Alberto nelle sue Memorie – «sono la prima origine del mio interessamento alla politica» (dal punto di vista formale è ebreo) e «da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo» (dal punto di vista sostanziale è nemico del Regime).
A partire dall’8 settembre 1943, ancora ragazzo, si fa carico con suo fratello e con un gruppo di amici di alcune iniziative “contro”:
viene fermato, detenuto più volte a Imperia e Savona e sempre scarcerato (era benvoluto e godeva di buon cognome),
fino a quando a Genova, carcere di Marassi – dove resterà nelle mani dei tedeschi da novembre fino a febbraio dell’anno successivo – non «inizierà una
nuova, terribile esperienza».
«Una mattina del febbraio 1944», si parte per il
campo di concentramento di Fossoli di Carpi, anticamera del peggio (che deve ancora venire).
Sempre e ovunque, lo accompagnano due pensieri: organizzare la fuga – e i tentativi, tutti falliti, saranno più d’uno –
e mantenere un contatto con la madre, sempre vicina.
Ma un giorno – sono le Memorie, regalo di compleanno dei figli Elena e Luca, a parlare – nel mese di giugno «si parte per la Germania, destinazione ignota […].
Caricati sui carri bestiame, sessanta-settanta per carro, aspettiamo ore
che la tradotta sia completata dagli oltre mille prigionieri».
Il convoglio si ferma a Mauthausen, in Austria, ai confini della Cecoslovacchia, dove tutti scendono.
È classificato Schutzhäftling, cioè
deportato per motivi di sicurezza: significa che l’aspetto politico prevale su quello razziale.
L’esperienza, allucinante,
descritta nel libro e raccontata più volte, durerà poco meno di un anno e, sempre, Alberto avrà una funzione di guida e sarà un punto di riferimento per gli altri. Inutile dire che,
vicino a lui, c’è Carlo.
«Era nella logica delle cose –
scriverà Primo Levi – che questi storici fossero quasi tutti prigionieri politici: ciò perché i Lager erano un fenomeno politico».
«I primi di maggio 1945 si apre il portone principale ed entra un carro armato americano […]. Il giorno 5 arriva la colonna dei liberatori. […]
Di sessanta prigionieri siamo tornati vivi in nove».
Carlo Todros
La storia di Carlo Todros, fratello, cammina su binari paralleli a quelli di Alberto.
È più piccolo e vede la luce anche lui a Pantelleria, il 23 marzo
1923.
Ebreo e antifascista, partecipa a operazioni di sabotaggio: viene arrestato negli ultimi mesi del 1943 e rinchiuso a Imperia, Savona, Genova e Fossoli.
Il 21 giugno 1944 parte con destinazione Mauthausen, dove giunge il 24 giugno.
«Il primo trauma è stato quando ci hanno tagliato i capelli a zero, lì ho pianto, il secondo quando i prigionieri dovevano essere distribuiti per i vari lavori: dividermi da mio fratello era molto pericoloso. Mio fratello allora, con un atto di incoscienza, andò dal capo blocco […]».
È internato nel sottocampo di Gusen 1 con la stessa qualifica (chiamiamola così) di suo fratello, quella di
Schutz.
Lavora con Alberto, che era studente di Ingegneria, al Baukommando cioè al Comando costruzioni: «[…] la vicinanza ci ha certamente salvato la vita».
È liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano.
Carlo era alto un metro e ottantadue e, quel giorno,
pesava trentotto chili.
«Mi presento davanti a un signore – testimonierà –
mi metto sull’attenti, mi tolgo il cappello, gli dico: “76.604, vorrei uscire dal campo” e lui mi guarda e mi dice “Nein!”.
“Come no, e allora siamo prigionieri come prima?”.
Lui ha capito il mio stupore e mi dice: "No, 76.604, sei un uomo, prego!”».