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I pupi di zucchero memoria dell’infanzia

Articolo tratto dalla Rivista Kalós n.3 del 2003


I pupi di zucchero memoria dell’infanzia
Testo di Christine Armengaud


Negli appunti di viaggio di un’etologa francese, la storia dei pupi di zucchero, evocazione popolare della morte, dalle origini antichissime ma ancora viva in forme simili anche in molte parti del mondo.


Un viaggio spesso ne nasconde un altro. Ero partita per cercare nei monasteri siciliani un’abilità claustrale eredità della cultura barocca del XVIII secolo, e ho scoperto il fascino kitsch di una produzione piuttosto decadente e ormai da molto tempo fuoriuscita da quei conventi in cui aveva avuto origine la tradizione delle pupaccene: i pupi di zucchero della Festa dei Morti. Un caldo feroce mi perseguitava da un capo all’altro dell’Isola, e visitando i molti conventi, mi rifugiavo nella frescura inattesa dei parlatoi per scoprirvi una profusione infinita di dolci piaceri. Bloccate nella loro angelica rigidità, le Sorelle ignoravano che fuori da quelle mura, e particolarmente negli Stati Uniti, quella ricetta segreta e gelosamente custodita era già stata pubblicata, discussa e anche modificata. In breve, esse si dovettero arrendere all’evidenza, i Seni della Santa gli erano sfuggiti di mano e come molti altri dolci particolari erano ormai prodotti e commercializzati da mani empie. Le pupaccene per esempio, proprio i pupi di zucchero della Festa dei Morti.


Fu a Palermo, all’ora del thè, nella splendida Tonnara, residenza di una antica famiglia siciliana, che per la prima volta ho sentito parlare della curiosa abitudine che vedeva i morti della famiglia, gli avi, portare dei regali ai bambini il 2 novembre. Giochi, frutti di pasta di mandorla e pupi di zucchero. Fino agli anni ’70 tutta la famiglia andava a sostare, quel giorno, sulle tombe dei defunti mangiando ossa dei morti, dolci in forma d’ossa, crani, femori o scheletri interi. “La morte e la vita sono la stessa cosa — mi dissero — i bambini si avvicinano ai morti e così capiscono come si possa morire ad ogni momento”. Nei corredi di matrimonio dell’aristocrazia era d’uso aggiungere l’abito di cotone bianco con il quale sarebbe stato vestito il suo proprietario da defunto. Il nome, una croce e la data di nascita erano già stati ricamati, soltanto la data di morte sarebbe stata aggiunta al momento opportuno. In questa famiglia, alla morte di un congiunto seguiva un rito austero: nessun ricevimento dopo la sepoltura, e niente cavalletti per la bara, in segno di umiltà semplicemente posata sul pavimento della chiesa. La Festa dei Morti, comunque, adesso non è più quella di una volta, i bambini non contano più sui loro defunti per ricevere doni, e Babbo Natale guadagna sempre più terreno… Cosa ne è dei pupi di zucchero? L’indomani ne vidi due esposti nella vetrina di un pasticciere a Palermo: un focoso cavaliere con l’elmo ed il pennacchio e una ballerina con il suo tutù luccicante di carta stagnola. Erano degli oggetti piuttosto kitsch, più vicini ad una bomboniera che ad un’opera d’arte, fosse anche, questa, un’arte effimera e per il palato. Qualche giorno più tardi recuperai delle altre informazioni frugando tra i libri del Museo Etnografico Pitré. E così fui edotta sull’argomento: il piccolo cavaliere è un Paladino, uno degli eroi del teatro popolare siciliano, quanto alla ballerina era invece ispirata alle statuine del XVIII secolo.


Durante la festa di Tuttisanti, le bancarelle dei mercati popolari propongono diversi altri tipi di pupi: spose in abito nuziale, bambini in una barchetta a vela, soldati, leoni, galli. E anche dei personaggi storici come Giovanna d’Arco e Garibaldi o dei soggetti più moderni: Stanlio & Olio trionfavano negli anni ’70, ed oggi è il momento dei personaggi dei cartoni animati giapponesi… Infine i defunti, che contrariamente alla mia prima impressione, non mantengono altro che il loro ruolo passivo di morti. Se certi pupi riportano a delle figure iconografiche tradizionali della cultura siciliana, altri permettono ai giovani di sgranocchiare, cannibalizzare, i personaggi emblematici delle proprie generazioni. Ma i bambini hanno ancora bisogno di mangiare delle immagini? Che siano di zucchero o di pane, di marzapane, di cioccolato, di pasta reale, di burro o di formaggio, le immagini commestibili sono comunque dei regali molto particolari. Vengono maneggiati come giocattoli, toccati, odorati, leccati e in più sono anche frantumati e mangiati! Un piacere trasgressivo? In altri tempi per ogni celebrazione c’era una specifica immagine commestibile che il giorno stesso veniva consumata. Era allora essenziale rifare ogni anno un segno nel calendario allo stesso momento, con lo stesso rituale: questo avveniva in un mondo rurale tradizionalmente senza orologio in cui bisognava potere identificare il ritmo dell’eterno ritorno delle stagioni perché punto di riferimento, perché ne fosse nutrita la memoria e dunque l’intelligenza del mondo. Anche a dispetto dell’evoluzione delle loro forme, i pupi di zucchero restano dei marcatempo: il 2 novembre è il solo giorno dell’anno in cui si offrono questi effimeri balocchi. In un mondo saturo d’immagini, di giocattoli, e dei cibi più vari, ci si può interrogare sull’efficacia del processo e sulla sua importanza. Soprattutto quando i segni sono chiari, privi di mistero, come lo sono i segni del kitsch.

Questo gusto kitsch, trattando dei pupi di zucchero, si può spiegare: lo zucchero divenne economico verso la metà del XIX secolo ed il suo utilizzo non fu mai associato alle feste popolari prima di questo periodo. Nei conventi invece, e tra l’aristocrazia, lo zucchero ad uso decorativo era presente fin dal XVI secolo. Era ancora, un prodotto raro, lavorato da mani abili influenzate dalla cultura del tempo e particolarmente nel XVIII secolo, dell’arte barocca. Quando, in seguito, questa estetica fu ripresa per le feste popolari da artigiani che lavoravano producendo in serie, con stampi e nella prospettiva di guadagno, allora si sviluppò quel prodotto kitsch che è giunto fino a noi.


La stessa materia prima di questi pupi, lo zucchero fragile e trasparente, per analogia con le porcellane economiche, dà a queste sculture l’aspetto di un soprammobile a buon mercato. Qualcuno potrà obiettare che questi pupi di zucchero evochino piuttosto i giocattoli tradizionali decorati da piume e luccichini vari. Ma allora perché parlare di kitsch e non piuttosto d’arte popolare? Senza nastrini, sonagli, fiocchetti — il movimento il suono la dolcezza — questi pupi sono piuttosto naif, e anche come giocattoli sono più appariscenti che ludici, in parte privati della loro funzione a vantaggio dell’apparenza là dove i giocattoli popolari sono invece più vicini al segno che alla rappresentazione esatta e fanno leva sull’immaginazione. Non restano che dei rapidi colpi di pennello a creare gli occhi, la bocca e a farne dei personaggi vivi ed emozionanti. Restano i colori, più fantastici che realisti,
una tavolozza di colori che li dipinge come se si trattasse di giocattoli in legno, argilla, di cartapesta ma che può inquietare nel caso in cui si tratti di cibo. Questa libera disposizione dei colori sfida la logica della rappresentazione realista ed altrettanto le consolidate abitudini nell’associazione dei colori con le proprietà gustative, contribuendo chiaramente a privilegiare l’apparenza piuttosto che il gusto. Una tendenza propria del kitsch gastronomico.



I pupi di zucchero nel mondo


In ogni caso tutti coloro che li hanno ricevuti da bambini identificano questi pupi come una rappresentazione della morte. E pur se i giocattoli e la morte sono spesso in relazione nei ritrovamenti archeologici, si tratta in questo caso di una diversa associazione. Ad Atene, per esempio, dopo un funerale è tradizione fermarsi in una pasticceria per consumare qualche dolce esorcizzando cosi la morte. In Germania, immagini di scheletri, molto classiche, o allegorie della morte rappresentata come una filatrice, sono incise negli stampi per produrre degli eccellenti biscotti all’anice. Nel Galles, a Gower, fino all’inizio del XX secolo, per la festa di Tuttisanti ai bambini si davano dei dolci con la forma di personaggi sorridenti i cui occhi erano di uva secca. Nello Yorkshire del XIX secolo, i partecipanti ad un funerale, ricevevano come partecipazione del lutto un delizioso biscotto avvolto in una fine carta bianca, stampata in nero con il nome dello scomparso, con una croce e le date di nascita e di morte, il luogo e l’ora della cerimonia e, infine, l’epitaffio: il tutto legato da un sigillo di cera nera. Ma è senz’altro in Messico, ancora per la festa dei morti, che si è sviluppata l’espressione artistica dello zucchero più gioiosa e stupefacente.


Durante i giorni precedenti la festa, in tutti i mercati del paese, si possono comprare decine di balocchi di zucchero teneri o divertenti, scegliendo tra centinaia di crani in zucchero di ogni dimensione, segnati con il nome del defunto o mascherati da una profusione di elementi decorativi ed estremamente colorati. Con lo zucchero si neutralizza e si addolcisce l’amarezza portata dal lutto. Lo zucchero, elemento energetico per definizione, diviene qui l’emblema di una sfida: la vita contro la morte. Ma soprattutto lo zucchero, comunque desti-nato ad essere consumato dai vivi, è segno di festa, di gioia popolare. Questi pupi di zucchero siciliani ci affascinano oggi essendo i sopravvissuti di una festa le cui luci si spengono, reduci di un mondo quasi scomparso in cui la morte non era un tabù, un mondo in cui la sua evocazione collettiva suscitava la produzione ed il consumo rituale di un’arte effimera sinonimo di vita. Questa tradizione adesso sopravvive soltanto sul piano folkloristico e commerciale, sempre più stereotipata in funzione delle poche famiglie di pasticcieri che detengono ancora le abilità e le tecniche di questa produzione.
E così, paradossalmente, il fascino nostalgico di queste fragili sculture dai colori pastello, dal gusto zuccherato memoria d’infanzia, non agisce più, ormai, che su quel pubblico in cerca del loro vero senso: questi oggetti kitsch riescono ancora ad evocare un legame profondo tra la vita e la morte, e allora… Viva il Kitsch!


Articolo tratto dalla Rivista Kalós n.3 del 2003

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