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Un giardino di marmo. La chiesa della Concezione al Capo

Articolo tratto dalla Rivista Kalós n.3 del 1990


Un giardino di marmo. La chiesa della Concezione al Capo

Testo di Giovanni Palazzo


All’interno della chiesa della Concezione al Capo si sviluppa, nella sontuosità della veste marmorea la metafora di un giardino di pietra fiorente e musicale dove i particolari inesauribili dell’intarsio di fiori, frutta, foglie, monogrammi cristiani ed i rilievi candidi di putti, angeli e figure allegoriche, fusi sapientemente più che integrare l’architettura la sovrastano nascondendola per stupire l’osservatore.


Il monastero della Concezione al Capo viene fondato nel 1576 e a quel tempo doveva essere costituito da poche case con annessa una piccola chiesa. A tal proposito Gaspare Palermo nella sua «Guida» così scrive:


«Donna Laura Barbera Ventimiglia, rimasta vedova e senza figli di Sigismondo Ventimiglia fu fondatrice di questo monastero. Aveva comprato una grande estensione di case grandi e basse presso la Porta Carini e dirimpetto la chiesa parrocchiale di S. Ippolito ed in queste case, stabilì fondare l’ideato monastero. Pensava istituirlo sotto l’ordine Francescano, facendolo erede di tutti i suoi beni. Ma penetrando questa sua lodevole intenzione il Padre Antonio Sardo della Compagnia di Gesù ragguardevole religioso, andatola a trovare, ebbe maniera di indurre la stessa a stabilirlo sotto la regola di S. Benedetto e a facilitare la fondazione che si offrì di pigliarne egli cura e di procurare le monache atte al bisogno» (…) «Concluso il trattato della fondazione, la Signora Donna Laura Barbera fece donazione al novello monastero del suo palazzo, e casa grande, ed estensione di altre case in più corpi con due giardini, cortile, terre ed altre case a pian terreno».


Nella pianta di Palermo del 1581 (Rilievo del Cartaro) che può ritenersi il documento cartografico più importante per la configurazione della città nella seconda metà del XVI secolo, la chiesa ed il monastero sono individuabili in una stecca di case poste sulla strada interna alla città murata che conduce alla Porta Carini.



La sontuosità degli interni


La sobrietà degli esterni non fa intuire la trionfalità della ricchezza decorativa interna che rende la chiesa della Concezione uno degli esempi più significativi del barocco fiorito palermitano. All’interno infatti trova sviluppo nella sontuosità della veste marmorea la metafora di un giardino di pietra fiorente e musicale dove i particolari inesauribili dell’intarsio di fiori, frutta, foglie, monogrammi cristiani ed i rilievi candidi di putti, angeli e figure allegoriche, fusi sapientemente fanno emergere la decorazione generale più che il particolare, cosicché la stessa piuttosto che più che integrare l’architettura la sovrasta, la nasconde, per stupire l’osservatore, per impressionarlo, per stordirlo, essendo nota la reattività «tutta meridionale» alle parvenze e allo sfarzo dei colori, espedienti attraverso i quali la chiesa della Controriforma prima cattura e poi soggioga gli animi e le menti.

La chiesa, ad unica navata preceduta da vestibolo su colonne ricalca lo schema di altre chiese palermitane quali la Pietà e S. Maria di Valverde.



Il miracolo dei paliotti


Tra le opere straordinari custodite all’interno della chiesa della Concezione al Capo, spiccano le architetture prospettiche a marmi mischi policromi dei paliotti dei quattro altari laterali. Il quinto paliotto, quello dell’altare maggiore fu trasferito nella cappella dell’Immacolata concezione nella chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Domenico Magrì marmoraro e gioielliere e Filippo Dedia scultore furono autori dei paliotti detti del «Crocefisso» e di «S. Benedetto», realizzati nel 1691 a imitazione di quelli già esistenti alla Concezione, i cui autori possono identificarsi invece con gli artisti Firrera e Nicastro di Giovanni che qualche anno prima avevano lavorato a Casa Professa realizzando sia il paesaggio di sfondo a commesso policromo nei quadroni ai due lati dell’abside, sia il paliotto della cappella di S. Giuseppe ad intarsio marmoreo su sfondo azzurro di smaltino di Venezia.

I paliotti esplicitano il gusto dominante in quel tempo dato dagli effetti prospettici e delle costruzioni scenografiche secondo canoni divulgati dalla trattatistica architettonica (da Vitruvio a Serlio, da Palladio a Scamozzi) ed anche da quella isolana («l’Architetto Pratico» di Giovan Biagio Amico) rappresentando così, con i materiali locali e quindi con marmo e le pietre dure, scene di paesaggio e di «città ideale» ed in particolare della «città santa di Gerusalemme liberata». Ecco emergere il simbolismo nascosto: da un lato la necessità di combattere per il trionfo della fede la missione da compiere in terra, per volontà di Dio, con responsabile senso del dovere (i paliotti); dall’altro, il conflitto con il piacere e la voluttà (il decoro delle pareti e del pavimento). Da un lato, la natura intricata e sensuale da «giardino di Armida» dei muri in elevato; dall’altro, il paesaggio chiaro, sereno, profilato, morbido dei fondi dei paliotti secondo un diffuso gusto arcadico.

Le architetture rappresentate da elementi ricorrenti nelle configurazioni sono in genere attraversate da un percorso predominante in asse, simboleggiante la conquista di un mondo aperto ed esteso rivolto verso lo spazio infinito. In tutti i paliotti le colonne tortili, così come nell’architettura del ‘600 che fece largo uso di tale elemento, simboleggiano le colonne del tempio di Re Salomone a Gerusalemme, rappresentando ad un tempo città celeste e città terrena, fede e potenza, ruolo sacro e ruolo imperiale, concetti questi graditi in Sicilia ai dominanti Spagnoli. Forse il sogno utopico di una convivenza felice in una città come Palermo desiderosa invece di libertà.


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