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Don Fabrizio Valguarnera, avventuriero e mercante d’arte

Don Fabrizio Valguarnera, avventuriero e mercante d’arte

Articolo tratto da Kalós n.4 del 1995

Testo di Olivier Bonfait
Traduzione di Anna Maria Rubino


La rocambolesca storia del siciliano Fabrizio Valguarnera

Fu un personaggio molto strano, morto il i 2 gennaio 1632 nella prigione di Tor di Nona, in via Giulia a Roma. Di Fabrizio Valguarnera, non possediamo alcun ritratto, ma solo una descrizione sommaria, redatta al tempo del suo interrogatorio: “un uomo sui trentotto anni, media statura, faccia piena, colorito roseo, barba castana, lunghi baffi, vestiva di taffetà marezzato, corpetto di damasco azzurro con merletti, calze di seta nera, scarpe di camoscio nero con nastri neri, mantello nero intessuto alla spagnola di lana e seta, cappello di feltro nero”. Insomma, un fisico ben poco caratteristico, ma che non impedisce a questo nobile siciliano, che ha lasciato poche tracce negli archivi, di essere perfettamente noto nella città eterna. Rubens gli manda a Roma una lettera dalla lontana Anversa, precisando: “scrivo questo a caso non sapendo s’ella’si trova a Napoli o a Palermo o in altra parte pur spero ch’ella havra buon recapito sapendo che gentihuomini pari suo sono conosciuti da per tutto”.
Perché Rubens gli scrive? Per sapere se “una adoracione delli magi di sette a otto piedi d’altezza di forma quasi quadrata che non è finita di tutto punto e potrai servire sopra l’altare di qualche cappella privata et ancora per adornar la cheminea di un salone grande” gli farebbe piacere. Perché un simile regalo? Perché
il pittore, che si dichiara “suo servitore affettuosissimo”, gli deve di esser stato guarito da un attacco di gotta a Madrid, alcuni anni prima. È a Madrid infatti che Fabrizio Valguarnera, nipote di Fabrizio I Valgiarnera, barone di Godrano, pretore di Palermo nel 1583, 1584 e 1589, fondatore dell’Accademia dei Resoluti, ma cadetto di famiglia, va a cercare fortuna nel 1628. Quast’uomo giovane, dottore utroque jure, laureato in matematica, che “s’intende anco bene in varie sorte di medicine”, spera di godere, nella capitale spagnola, dell’appoggio dello zio, il letterato Don Mariano Valguarnera, Cappellano di Sua Maestà Cattolica Filippo IV.
Ma è un’avventura degna di Cagliostro, quella che gli riserva la dea Fortuna. Nel corso dei primi contatti con degli artisti (il nostro è infatti già intenditore di pittura; Van Dyck, all’epoca del suo soggiorno a Palermo nel 1624 era suo amico e lo menziona nel suo taccuino italiano; Rubens gli vende a Madrid un quadro a soggetto storico) viene coinvolto in una storia di furto di diamanti fatto da Manuel Alvarez. Complice del ladro Manuel Alvarez, amante della moglie di questi, Giovanna di Silva, Fabrizio è assalito in piena notte, mentre usciva dall’abitazione di quest’ultima, da sicari dei mercanti proprietari dei diamanti che lo avevano attaccato per tentare di recuperare i loro beni. Decide allora di raggiungere Manuel a Bayonne, tutti e due passano in Francia, fuggono di città in città: Tolosa, Lione, Genova, Livorno, Napoli dove vendono parte dei diamanti al principe di Conca. La ricchezza e il pericolo guastano la loro complicità. Manuel sperpera il denaro in abiti di lusso, Fabrizio è tentato di ucciderlo, ma viene salvato dal peccato grazie alla protezione della Madonna di Costantinopoli. Riesce in fine a convincere Manuel a tornare a Madrid per restituire i diamanti. Nel gennaio 1631, all’osteria Ripa grande, Manuel lascia definitivamente Fabrizio, questi, sotto falso nome, scambia a Roma le sue pietre preziose con altri oggetti il cui prezzo aumenta a vista d’occhio sotto il pontificato di Urbano VIII.
Ma
nonostante il falso nome di Don Antonio, Fabrizio è presto riconosciuto. Quando il 12 giugno 1631 il governatore di Roma riceve una querela dei mercanti di Lisbona e di Madrid contro Fabrizio Valguarnera che li ha derubati di una considerevole partita di diamanti ancora non tagliati, viene subito arrestato.



La mostra di Santa Maria di Costantinopoli


Il 10 giugno 1631, il modesto pittore Joachim von Sandrart, formatosi alla scuola dei pittori caravaggeschi di Utrecht, giunto a Roma da poco, può sentirsi fiero. La sua “Morte di Seneca” è esposta con altri undici quadri commissionati dal re di Spagna in onore della festa di Santa Maria di Costantinopoli, la chiesa dei siciliani di Roma: “il Ratto di Elena” di Guido Reni, “La Morte di Didone” del Guercino, “il Ratto delle Sabine” di Pietro da Cortona, un’allegoria dei cinque sensi di Valentin e un’altra della “Saggezza divina” di Sacchi, una “Diana fra Atteone e Callisto” di Lanfranco, “la Caccia di Diana” del Domenichino e la Peste d’Azoth di Poussin. Altri tre quadri, commissionati a Orazio Gentileschi, Massimo Stanzione e al Cavalier d’Arpino non sono stati ultimati in tempo per figurare alla mostra, come il Sandrart ci dice nella sua autobiografia. Questa galleria regale costituisce un museo ideale della pittura italiana dell’epoca. Perché questa e la mostra nella chiesa dei siciliani è un manifesto della nuova pittura a Roma sotto Urbano VIII, al tempo in cui il pittore diventa più celebre dell’uomo di lettere, al tempo in cui la muta poesis, sia che s’ispiri a Virgilio, a Plinio o al retore contemporaneo Manzini, si fa più parlante della poesia. Grazie ai costanti riferimenti agli antichi, alle citazioni di Raffaello o di Tiziano, alla retorica dei gesti o all’espressione delle passioni, la pittura a Roma, nel 1630, elabora un linguaggio che rinnova il suo statuto e la sua natura. Undici anni dopo la Galleria del cavalier Marino, l’esposizione di Santa Maria di Costantinopoli realizza questa evoluzione in ambito visivo. Eppure, è assai probabile che questa galleria ideale sia frutto del museo immaginario, che questa cronaca sia semplicemente una leggenda. Nessun quadro, di quelli citati, fu commissionato dal re di Spagna (ad eccezione del Ratto di Elena di Guido Reni) nel giugno del 1631, i quadri dei due maestri bolognesi non erano ancora giunti a Roma, come ha dimostrato M. T. Dirani; la Diana fra Atteone e Callisto di Lanfranco non è mai stata forse dipinta. Ma il Don Antonio siciliano, committente secondo Sandrart, in un altro passo del libro, della Peste d’Azoth di Poussin, è senz’altro esistito; non è altri che Fabrizio Valguarnera.



La galleria di Fabrizio


Lo stesso Poussin ce ne informa, quando testimonia al processo intentato a Fabrizio Valguarnera, dopo l’arresto, il 28 luglio 1631: “Io avendo inteso che Don Fabritio si trova in priggione per ragione di non so che diamanti e pietre preziose, che si pre-tendono robbati secondo che ho inteso esser voce per Roma, et havvendo io trattato colui in materia di pitture, et vendutogli due quadri, cioè uno quattro o cinque mesi sono che è il miracolo dell’Arca nel tempio di Agone (cioè la peste di Ashdod) et l’altro un giardino dei fiori, che l’hebbe ultimamente tre mesi sono in circa”.
La critica contemporanea ha ben mostrato quanto fossero fondamentali quei due dipinti nell’opera di Poussin che abbandona le grandi composizioni, le pale d’altare per concentrarsi su quadri di cavalletto a soggetto storico o mitico.
La Peste d’Azoth preannuncia la maggior parte delle grandi composizioni storiche degli anni trenta e le riflessioni di Poussin su temi e modi. Il Giardino di fiori, oggi conosciuto col nome de Il Regno di Flora, commissionato da Fabrizio Valguarnera, rivela un nobile siciliano in perfetta sintonia con l’alessandrinismo barberiniano, con i gusti di Urbano VIII e degli ambienti intellettuali gesuitici, per la cultura dei fiori celebrata dal Padre G. B. Ferrari. Poco tempo dopo, Mariano Valguarnera, zio del processato, lascia Madrid per Roma e traduce e commenta le opere di Anacreonte per Urbano VIII. Ma non erano gli unici capolavori in possesso del nobile siciliano. L’inventario dei suoi beni, redatto mentre era in vita, menziona non meno di 37 quadri. Oltre a tre o quattro Tiziano o Carracci, si tratta per lo più di opere di artisti viventi: Fabrizio racconta come avesse acquistato da Ferrante Carlo, un membro della famiglia Borghese, mercante e critico d’arte al tempo stesso, quadri di Correggio, Tiziano, Ludovico Carracci o Lanfranco pagando in diamanti. E Lanfranco precisa che sua moglie ha perso nel giardino della propria villa il diamante che Fabrizio gli aveva dato per alcune pitture temendo che i giudici lo sequestrassero. Dal canto suo Valentin, l'”innamorato” nel gruppo dei pittori fiamminghi, racconta come Valguarnera lo solleciti a realizzare il quadro da lui commissionato, una grande tela con una “Zingara, soldati et altre donne che sonnassero instrusmenti”, mentre il pittore “non si sente di lavorare”. Ad eccezione delle tele di Reni, Dominichino, Guercino e Sandrart, tutte le opere che secondo Sandrart vennero esposte alla mostra del 1631, sono presenti nell’abitazione di Fabrizio Valguarnera: una copia del Ratto delle Sabine di Pietro da Cortona, la Saggezza divina di Sacchi, la Peste d’Azoth di Poussin, grandi dipinti di Valentin e di Lanfranco. Perché se questa esposizione si fece, essa ebbe luogo probabilmente dopo la morte di Valguarnera, al fine di vendere all’asta i suoi beni, come accadde per i diamanti.



Il testamento


Infatti la detenzione fu fatale per il nostro. Morì in prigione il 2 gennaio 1632. Leonardo Sciascia aveva sospettato la giustizia romana di aver fatto uso di veleno, ma Fabrizio, colto da febbri malariche, aveva avuto il tempo di dettare il suo testamento, il 25 dicembre 1631. Il suo è un testamento da gran signore: lascia a Urbano VIII una croce in legno prezioso e una pietra detta in porcospino d’India, efficace contro le febbri maligne, prega la moglie, sua erede universale, di far costruire una cappella nella chiesa di San Domenico o di Maria del Carmine a Palermo e le chiede di restituire 3000 scudi a Manuel Alvarez, portoghese, suo complice nel furto dei diamanti…


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