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Il primo Natale repubblicano a Palermo di Gaetano Basile

Gaetano Basile ci racconta il Natale del 1946 a Palermo, il primo da cittadini della Repubblica italiana.

Gaetano Basile


Articolo tratto da Kalós, l’accento sul bello – Anno 2019 n°2

Testo di Gaetano Basile


Primo natale repubblicano a Palermo

A casa nostra Natale iniziava il 13 dicembre. Dopo Santa Lucia. Si scendevano dal solaio gli scatoloni con tutto l’occorrente per il presepe: telai di legno, sugheri, muschio, cartoncini, colla; la stalla, i ruderi romani, lo specchio rotto per il laghetto. Gli immancabili pastori, in terracotta colorata: pure bue, asinello, caprette e pecore, galline, oche, un paio di cammelli, che per noi sempre “pastori” furono. Tutto doveva essere pronto per il 24 dicembre. In quel diorama natalizio mancava sempre il Bambino Gesù che si collocava, dopo la benedizione del prete, nella santa notte. I re Magi erano di tre modelli: quelli più piccoli si mettevano in fondo, in alto, e si andavano spostando giornalmente cambiando dimensione man mano che si avvicinavano alla grotta; i più grandi si mettevano in primo piano per l’Epifania.

A costruzione ultimata si spargeva la farina a significare la neve. Una volta feci osservare, con il garbo dovuto, che da quelle parti non ci fu mai la neve. Seccamente fui invitato a farmi i fattacci miei!

La vigilia si mangiava di magro: tanto pesce. Al mercato della Vucciria anguille e capitoni erano guizzanti in barche piene di acqua di mare. A casa nasceva il problema della loro decapitazione. Il nonno usava una vecchia sciabola di cavalleria e un tagliere d’ulivo. A noi piccini ricordavano le esecuzioni capitali viste al cinema, con “copioso sangue sparso”… I tocchetti di capitone finivano sulle braci, le anguille in umido, come tradizione voleva. Seguiva una colossale insalata di finocchi, ravanelli, olive verdi e fette di arance che servivano come levasdegno, lasciando intendere lo sdegno dell’apparato digerente per quella anomala abbuffata notturna. Infatti seguivano dolci di ogni angolo dell’isola e quelli conventuali delle suore di famiglia che così appalesavano la loro parentela. L’indomani seguiva un’altra abbuffata. Questa volta il desco natalizio era occupato da capponi farciti o tacchino che però si diceva tacchinella. Quel ben di Dio era preceduto dalla pasta fresca fatta in casa, con il sugo delle interiora degli innocenti pennuti, tanto pepe e caciocavallo.

Un capitolo a parte meriterebbero i vini. Non c’erano bianchi e rossi, ma quei vini feroci per l’alta gradazione, con il tipico colore scorza di cipolla. Serviti a temperatura ambiente passavano per rossi, se rinfrescati usurpavano il titolo di bianchi. Solo quando c’erano ospiti di riguardo si servivano quelli imbottigliati che furono sempre Chianti o Chardonnay che veniva da chissà dove. Trionfava l’acqua di rubinetto (detta di Scillato) resa frizzante dall’idrolitina! Ricordo bene il Natale del ’46 perché il 2 giugno c’era stato il referendum ed eravamo diventati repubblicani. Quando chiesi a mio padre che significava, mi guardò negli occhi proclamando solennemente che, benché nato figlio della lupa e suddito di sciaboletta, adesso ero cittadino della Repubblica italiana. Ci capii poco, ma doveva essere cosa di cui andare fiero e orgoglioso. […]



Leggi l’articolo completo su Kalós, l’accento sul bello – Anno 2019 n°2.

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