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La Grua Talamanca e Carini: una baronia secolare

La baronia di Carini espresse il suo potere per ben sei secoli con i La Grua Talamanca, la cui storia si lega a un esteso e ricco territorio costellato di borghi feudali, che dal Medioevo in poi ebbe una rapida evoluzione storico-strategica ed economica.

In questo estratto da La baronia di Carini, scopriamo la nascita di questa potente famiglia, i cui membri, da semplici mercanti, divengono baroni e, infine, principi.


La nascita della dinastia

Attorno al 1330 ser Colo de Grua, esponente di una nota famiglia mercantile pisana dedita al commercio di grano e cotone, per incrementare la sua attività commerciale si era trasferito in Sicilia, dove già dagli inizi del XIV secolo, tra l’epoca del Vespro e il Regno aragonese, operava una folta colonia di mercanti toscani come gli Abbatelli, gli Alliata, i Vanni e gli Ajutamicristo.

Il figlio Ubertinus de Grua seguì la carriera militare distinguendosi per imprese eroiche e fedeltà al suo sovrano, Martino il Giovane, superando la resistenza dei ribelli anti aragonesi asserragliati nel castello di Carini. 


In ricompensa dei servigi resi alla Corona aragonese, nel 1397 re Martino donava a Ubertino La Grua, per sé, i suoi eredi e discendenti, il feudo e il castello con acque, boschi, monti e pertinenze. Nasceva così la baronia.

Ubertino, primo barone di Carini, entrava in possesso di una rocca con annesso borgo fortificato, ma anche di una terra popolosa, con mulini, fertili terre coltivate, e dotata di approdo per le navi e di un’antica tonnara.

Furono queste le solide basi di una dinastia che, transitando per via ereditaria sempre nella stessa famiglia, consolidata da forti alleanze matrimoniali, sarebbe durata secoli pur nella turbinante storia feudale della Sicilia. 


Il consolidamento e il sodalizio con i Talamanca

Ubertino divenne consigliere del re e si guadagnò l’assoluta fiducia di Martino che presto gli avrebbe riconosciuto alcune prestigiose cariche: viceré nel Val di Mazara e Gran Giustiziere del Regno.

La terra di Carini veniva accordata a Ubertino e ai suoi eredi in perpetuo: la baronia diventava un bene patrimoniale della famiglia da trasmettere ereditariamente, fermo restando il vincolo di assoluta fedeltà al sovrano che doveva essere rinnovato a ogni passaggio ereditario. Ma, fatto più unico che raro, in questo caso il rinnovo dell’investitura regia rivestì sempre carattere formale: la dinastia non infranse mai il suggello di fedeltà che la legava al re e, in ogni accadimento della storia, i La Grua furono sempre a fianco dei loro sovrani.

Nel frattempo Carini era cresciuta divenendo una comunità feudale di riguardo: è significativo che una delle porte urbiche della cinta Medioevale a Palermo avesse preso il nome che tuttora conserva, Porta Carini. 



Ubertino sposò una nobildonna palermitana, Soriana de Lombardo, ed ebbe un’unica figlia di nome Ilaria, la quale nel 1402 andò in sposa a Gispert (Gilberto) Talamanca, un nobile della Catalogna venuto in Sicilia al tempo dei due Martini, signore di Vicari e Misilmeri, ambasciatore del Regno di Sicilia e Consigliere di Stato. Alle nozze fu presente lo stesso re Martino il Giovane, che in tal modo ostentava il suo appoggio alla fazione catalana contrapposta a quella latina dei Chiaramonte. Ebbero un unico figlio, Ubertino (Ubertinello), nato nel 1403, che il nonno materno si affrettò a istituire suo erede universale, spingendosi a fare qualcosa di più: impose l’obbligo, da valere per sempre in futuro, secondo il quale la dinastia poteva transitare solo attraverso i figli maschi che avrebbero dovuto conservare l’arme di casa La Grua e il patronimico da anteporre a quello di Talamanca. In seguito a questo vincolo, il cognome La Grua Talamanca sarebbe rimasto, nel tempo, un cognome unico, inscindibile. Lo scudo merlato dei La Grua con la gru araldica, simbolo della vigilanza, da ora in avanti si inquartava col losangato d’oro e d’argento della famiglia Talamanca


Giovanni Vincenzo e le arti

Le prime espressioni d’arte ebbero principio al tempo di Giovanni Vincenzo (a inizio '500), in coincidenza con la ripresa economica dell’Isola sotto l’autorità vicereale che favorì le attività imprenditoriali dei baroni.

Si iniziò nel Quattrocento con la edificazione della chiesa Madre, si proseguì tra Cinquecento e Seicento con la grande fioritura di edifici religiosi, le chiese di San Vito (1532), San Rocco (1539), Santa Caterina (1549), del Rosario, del Carmine, di San Vincenzo e dei Cappuccini, con rispettivi monasteri, conventi e chiostri. Ancora dopo, tra Seicento e Settecento, si sarebbe affermata una bella stagione decorativa espressa da pitture e stucchi di elevato pregio artistico, mentre il centro abitato rapidamente si espandeva oltre le mura del borgo medioevale.


Il barone Vincenzo: signore illuminato e pazzo omicida

Vincenzo La Grua Talamanca Toch Manriques (settimo barone di Carini, 1527-1593), all’età di sedici anni sposò la quattordicenne Laura Lanza, figlia del potente conte di Mussomeli e barone della Trabia, Cesare Lanza. 

Personalità complessa e contraddittoria, rimasta ancora oggi indecifrabile per le molteplici identità che convivevano nel personaggio. Irrequieto e gaudente, amante degli orpelli, della vita frivola e spensierata, mentre la baronia affondava nei debiti. Eppure, nonostante il disagio economico, trovò le risorse per costruire la sontuosa Villa del Belvedere con parco, ninfeo, casino e foresteria, cornice alle feste, alle cacce, alla sua piccola corte di raffinato signorotto rinascimentale. Artefice del primo rinnovamento architettonico del castello, della fondazione di chiese e di istituti monastici, del rilancio edilizio e di una serie di iniziative in favore delle attività produttive e commerciali della baronia, quale il vigoroso impulso dato alla canna da zucchero, principale fonte di benessere per la breve stagione in cui durò. Per questi motivi Vincenzo II è passato alla storia come "signore illuminato". Tuttavia la sua immagine è rimasta macchiata dalla fosca vicenda che sempre lo avrebbe accompagnato come un'ombra implacabile: il tragico caso della baronessa di Carini (1563), uccisa dal padre con la complicità del marito, proprio lui, il barone Vincenzo.


La nascita del principato

Nel 1622 Filippo III, re di Spagna e di Sicilia, elevò Carini con Terra e Castello a dignità di principato e insignì del titolo di principe Vincenzo La Grua Talamanca e Bosco. Fu Deputato del Regno di Sicilia e ripetutamente Pretore di Palermo (sindaco). Proseguì l’opera paterna di abbellimento del castello come luogo di stabile soggiorno ma anche munito fortilizio in caso di attacchi pirateschi. Ebbe il diritto di mero e misto impero, ovvero la facoltà di amministrare nel suo Stato la giustizia civile e penale: per questo nei sotterranei del castello c’erano le prigioni destinate ai ladri, ai briganti di campagna e ai prigionieri che sopravvivevano alle crudeltà dei tempi.

I suoi discendenti proseguirono una sagace politica amministrativa dello Stato, quasi sempre rafforzato da prestigiose alleanze matrimoniali.


La fine del potere

Nel 1812, per effetto della costituzione siciliana vennero aboliti privilegi e diritti feudali e il principe Antonino La Grua Talamanca Sabatini decise di trasferirsi in Francia con la famiglia.

Il castello fu chiuso ed ebbero inizio l'abbandono, il degrado delle strutture, il saccheggio degli arredi. Sarà solo negli anni '80 del secolo successivo che l'Assessorato Regionale ai Beni culturali e ambientali, divenuto nel frattempo proprietario, darà inizio ai lavori di restauro e recupero di questo piccolo scrigno di storia.


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