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Le torri d'acqua di Palermo: alta ingegneria tra qanāt e sudiciume

Nel 1877 ben 67 torri d'acqua erano attive nella sola città di Palermo: elementi terminali di un complesso sistema ingegneristico che, sfruttando il principio dei vasi comunicanti, era in grado di regolare il flusso d'acqua dalla Conca d'oro alla città. E se ad un certo punto le scarse condizioni igieniche dovettero farli abbandonare, oggi i tanti ruderi disseminati per la città testimoniano l'affascinante passato di una Palermo città d'acqua.

In copertina le torri del parco di Villa Florio-Pignatelli.

torri d'acqua palermo villa florio pignatelli


L'acqua nell'antichità

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la città di Palermo e i suoi territori limitrofi sono ricchi d'acqua, poggiando sulla pianura della Conca d’Oro, attraversata dal fiume Oreto.

Il problema nel corso del tempo è stato semmai quello di condurre questo immenso flusso nella zona urbana.

Per secoli gli abitanti della più antica Palermo hanno bevuto e utilizzato le acque dei fiumicelli Kemonia e Papireto che scorrevano alla base delle mura del nucleo urbano originario.

Fuori della città, il fiume Oreto era utilizzato per muovere mulini almeno dal XII secolo e fin da epoca antichissima si dovettero utilizzare le fonti più prossime alle mura, come le sorgenti Ġarrāf, oggi Garraffo, o ʻayn Sindī, oggi Danisinni.

Una serie di catusi o catusati (dall’arabo qādūs), reti di condutture dalla forma cilindrica, furono realizzati in primo luogo al servizio delle residenze suburbane o sollacia dei re normanni.

Le prime gallerie di drenaggio e adduzione dell'acqua documentate da fonti scritte a Palermo sembrano datarsi alla metà del XV secolo: già nel Quattrocento sappiamo infatti dello scavo di condotte per portare l’acqua della Conceria fino al Garraffo e all’abbeveratoio della Marina. Scavate artificialmente nella calcarenite, una roccia molto friabile e pertanto facilmente lavorabile, vengono spesso chiamate col termine arabo qanāt, sebbene l'equivalente siciliano sia ’ngruttati.


L'invenzione delle torri d’acqua

Il sistema di captazione e adduzione d’acqua a Palermo raggiunge il suo massimo sviluppo in epoca moderna, nel corso del XVI secolo e con ulteriori evoluzioni fra XVII e seconda metà del XIX.

In questo contesto, nascono le torri d’acqua, dette anche urne o, in siciliano, giarre per la loro funzione di raccogliere e far recuperare pressione alle acque che giungevano a Palermo dalle quote piuttosto basse delle sorgenti della Conca d’Oro (si pensi che il Gabriele, fra le più alte, sgorga a 127 metri di altezza).

Sono state definite in vari modi: torrette di distribuzione, castelletti e, più di recente, torri piezometriche, dal greco  πιέζειν, “comprimere”, “premere” e

μέτρον, “misura” , ad indicare il compito di regolare la pressione dell'acqua.


Funzionamento

Le torri si rifacevano a un'invenzione già presente nel mondo romano (si hanno degli esemplari anche a Pompei) e poi anche in quello islamico e sfruttavano il principio dei vasi comunicanti, facendo in modo che l’acqua, sgorgata da sorgenti poste ad una determinata quota, fosse condotta sulla loro cima - ad un livello equivalente alla quota della sorgente di partenza - in modo da ottenere un flusso praticamente costante

Possiamo ricostruire tutto il percorso dell’acqua, dalla sorgente alle utenze finali; alla fonte, il liquido veniva imbrigliato attraverso condutture sotterranee in una vasca principale, da cui veniva smistato nelle diverse direzioni. 

Attraverso tubi in argilla, i catusi, che formavano fasci detti doccionati, l’acqua raggiungeva quindi la città e veniva condotta sulla sommità dei castelletti primari; spesso i castelletti erano collocati al di sopra delle mura della città per rendere più facile il raggiungimento di altezze elevate.

Sulla cima di ogni torre d’acqua, il liquido, raccolto in contenitori detti urne, si immetteva nuovamente nelle tubature, per raggiungere la sommità dei castelletti secondari, che si trovavano, di solito, accostati alle pareti esterne degli edifici; da qui, l’acqua scorreva nuovamente nei catusi, fino a raggiungere, con un flusso ancora forte, le singole abitazioni, o le fontane pubbliche.


Problematiche

Dalla prima vasca, l'acqua veniva venduta ai gabelloti, i quali decidevano in maniera abbastanza arbitraria come suddividere il flusso ai diversi quartieri della città. A quel punto, toccava al fontaniere il compito di regolare la quantità d’acqua agli utenti accedendo giornalmente al castelletto.

Da un punto di vista igienico, questo sistema presentava non pochi problemi: spesso il fontaniere per diminuire il volume del tubo idrometrico si serviva di luridi stracci e le stesse vaschette di raccolta e distribuzione, non essendo ermetiche, divenivano habitat naturali per insetti, molluschi, erbe e radici

Le antiche mura della città, alle quali si addossavano la maggior parte dei castelletti, costituivano inoltre le pubbliche latrine e d'altra parte i doccionati in argilla attraversavano le fogne senza essere in alcun modo protetti dallo sporco né, se è per questo, dagli innesti abusivi.


L’acquedotto e i ruderi delle torri a Palermo

Intorno al 1877 nella sola città di Palermo erano in funzione almeno 65 torri d’acqua dipendenti da otto diverse sorgenti o fontane cittadine: Papireto, Fontanella, Porta Felice, Garraffello, Fonte Pretoria, Gabriele, Molo e Uscibene. 

Nel 1885, con il bando per la realizzazione dell’acquedotto a condotta forzata, ebbe inizio quel processo di sostituzione del sistema delle torri con quello che ancora oggi porta a Palermo le abbondanti acque della sorgente di Scillato.

Se allo scoppio della prima guerra mondiale i due sistemi convivevano ancora parallelamente, oggi non restano che i ruderi del passato, testimonianze di un sistema ingegneristico trasmessoci dai romani e durato per secoli. 

Un patrimonio che oggi abbiamo il dovere di custodire e tutelare.

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